13 agosto 2015

Quel senso di meraviglia

3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
(Matteo 18, 3-4)

Il bambino non è superbo. Il bambino non è saccente. Il bambino non è arrogante. Il bambino non è lo sborone che crede di sapere tutto solo perchè l’ha letto in un libro o gli è stato spiegato da qualcuno.

Il bambino deve provare. Sa benissimo di non conoscere ciò che ha di fronte e proprio questa consapevolezza gli provoca uno straripante senso di meraviglia, paragonabile a una sindrome di Stendhal, e di conseguenza la sua curiosità ne trae alimento: deve sapere, deve capire le ragioni e le meccaniche dello spettacolo del quale è personalmente testimone.

Per l’adulto, però, il procedimento è infinitamente più complicato. L’adulto si crogiola beato nella sua presunta sapienza, fatta di superbia e banalità. La meraviglia? Cos’è, si mangia? E’ il nome d’arte di qualche puttanone di bassa lega? E così la vita passa col suo carico di costante meraviglia, travestita a volte da sensazioni ed esperienze felici, a volte infelici, altre volte ancora neutre, e l’adulto non se ne accorge nemmeno.

Eppure, forse, il mondo non è proprio così banale, così uniformemente grigio. Forse non è così insignificante, frutto di una clamorosa serie fortunata di scontri molecolari totalmente casuali in tutto l’universo, dalla sua nascita fino ad oggi, come sostiene la scienza attuale. Forse, una logica, ce l’ha. Un’intelligenza, troppo grande per essere esplorata in toto, costretta a darsi limiti e confini per potersi manifestare in un numero di forme e di situazioni anch’esso enormemente troppo gigantesco per essere minimamente immaginato.

Eppure, questa infinita grandezza, la si percepisce nelle piccolezze. Un’ovvietà, una banalità, una novità, una parola, un’informazione della quale si era all’oscuro, un infinitesimo momento di tranquillità o uno di caos, di pace o di rumore, di allegria o di tristezza e d’improvviso ci si ritrova come un bambino al quale “rubano il naso” per la prima volta.

Un esempio che è capitato a me l’altro giorno. Guardando un documentario sulla fauna della Tasmania, si arriva al momento di un’aquila (della quale non ricordo il nome esatto) e delle sue tecniche di caccia. Le aquile, si sa, quando devono cacciare volano a parecchi metri da terra, scrutano ben bene le eventuali prede sotto di loro e si fiondano in picchiata quando trovano quella buona, la afferrano con gli artigli e si garantiscono il pasto e la sopravvivenza. Già quando si parla di animali di qualunque specie c’è da rimanere esterrefatti: sanno esattamente cosa fare, come comportarsi nelle varie situazioni sia della loro vita quotidiana che della loro vita in generale. Ma nel caso di quest’aquila durante la caccia, una sua furbata mi ha folgorato.

Provate a dimenticare tutto. Fate il vuoto nella vostra testa, levate l’incessante senso di banalità che avvinghia quel mare di informazioni che avete in merito alla caccia degli animali, quelle immagini trite e ritrite del predatore e della preda: non ci sono più. Fate spazio e respirate.

L’aquila vattelapesca della Tasmania, quando caccia, vola alta e scandaglia la terra sotto di sè. Quando inquadra la preda prescelta, prima di tuffarsi in picchiata, ne studia un po’ i movimenti, sempre restando a decine di metri d’altezza. Ma non rimane solo in alto, ed è questa la finezza da meraviglia: rimane controsole rispetto alla preda, così da non metterla in allarme facendole notare la sua ombra.

Basta. Adesso ascoltatevi voi.