29 luglio 2017

R.I.P. Isis™

Grand Theft Auto docet

Ragazzi, ormai manca solo l'ufficialità esplicita, ma i fatti parlano chiaro: il Sedicente Stato Islamico™ è morto. Lo spettro costante, il babau dell'uomo nero, il califfo, le aggressioni urlando Allahu akbar™: tutto finito, basta, stop, kaput.

È vero: giusto ieri ad Amburgo il solito idiota armato di macete ha aggredito alcune persone, uccidendone una, "inneggiando ad Allah"™. Vero, tutto vero. Ma allora come è possibile che l'Isis™ sia finito, se uno dei suoi cani sciolti™, uno dei suoi radicalizzati™ ha appena compiuto un attentato niente popò di meno che in Cermagna?

Basta guardare i mezzi di informazione. Nei tg questa notizia è stata il terzo-quarto servizio, trattata alla stregua di un qualunque omicidio per gelosia nostrano, o un regolamento di conti tra bande. Sui giornali di oggi si è beccato giusto un trafiletto in prima pagina.

Fino a qualche mese fa (un paio al massimo)? Due secondi dopo il fatto avremmo avuto tutti i vari Rainews24, Skytg24, Tg1, Mentana e simili in diretta da Amburgo, con continui aggiornamenti dalle varie "fonti di polizia", "fonti interne", le interviste ai testimoni, le immagini del dispiegamento di furgoni della Polizei, le opinioni al telefono degli esperti di terrorismo internazionale, "era conosciuto ai servizi segreti", "non cambieranno i nostri stili di vita", la solidarietà dei vari capi di stato alla Merkel eccetera eccetera eccetera eccetera. Ma ormai, da un paio di "sciabolate" a questa parte, nel mainstream l'Isis™ fa meno paura di Norbert "Igor il russo" Feher.

Aggiungeteci il fatto che tra Siria e Iraq gli uomini in nero le stanno prendendo come se non ci fosse un domani e capite l'inesorabile spirale di declino nella quale sono finiti.

Mettetevi nei panni di quei poveri co****ni che tanto vorrebbero sbraitare la gloria di Allah mentre brandiscono una lama o guidano un camion: hanno perso il treno della fama. Ormai il "sistema" li ha scaricati. Usa (U.S.A.) e getta, come un preservativo. Sono passati da mostri terrificanti, spietati, folli e assetati di sangue, al livello di una comune lite familiare.

Questa società non ha rispetto per i suoi eroi. Non restare indifferente. Adotta a distanza anche tu un combattente dell'Isis™. Fallo sentire importante. Tornare alla normalità dopo aver assaporato i privilegi e i lussi della fama mondiale è potenzialmente distruttivo per la psiche. Con pochi euro al mese puoi evitare tutto questo. Grazie.


P.S.: che poi, l'asticella è stata alzata dal tizio che in Svizzera ha aggredito dei passanti con una motosega. Una motosega! Mica un coltello o un macete... Grand Theft Auto insegna. E il pirla ad Amburgo è stato pure preso a sediate dai clienti del supermercato. No dai, a me... sigh... vedere l'Isis ridotto così... sigh... non ce la faccio... sigh...

26 luglio 2017

E poi ci si chiede perchè la gente sta male...

Non so esattamente il perchè, ma mi è venuta in mente la parabola del seminatore. Così, ad minchiam. Allora sono andato a rileggermela e, per pura curiosità, ho pensato di cercare come essa venga spiegata da quella massa di scribi e farisei appartenenti all'istituzione impropriamente chiamata Chiesa. Non che una qualunque spiegazione sia necessaria, dato che, come potete leggere qui sotto, il messaggio è piuttosto chiaro, bello, tondo, pulito, semplice. Forse fin troppo semplice... E a certa gente le cose semplici non piacciono, devono complicarle, arzigogolarle con un oceano liquido di minchiate partorite dalle loro menti deviate nel corso dei decenni della loro vita.

Ecco il testo della parabola. È presente in tutti e 3 i vangeli sinottici, ma ho preso la versione di Marco perchè è quella un filo più completa.
Marco 4, 1-20
[1] Gesù si mise di nuovo a insegnare presso il mare. Una gran folla si radunò intorno a lui. Perciò egli, montato su una barca, vi sedette stando in mare, mentre tutta la folla era a terra sulla riva. [2] Egli insegnava loro molte cose in parabole, e diceva loro nel suo insegnamento: [3] «Ascoltate: il seminatore uscì a seminare. [4] Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; e gli uccelli vennero e lo mangiarono. [5] Un'altra cadde in un suolo roccioso dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; [6] ma quando il sole si levò, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. [7] Un'altra cadde fra le spine; le spine crebbero e la soffocarono, ed essa non fece frutto. [8] Altre parti caddero nella buona terra; portarono frutto, che venne su e crebbe, e giunsero a dare il trenta, il sessanta e il cento per uno». [9] Poi disse: «Chi ha orecchi per udire oda». [10] Quando egli fu solo, quelli che gli stavano intorno con i dodici lo interrogarono sulle parabole. [11] Egli disse loro: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché: [12] "Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati"».
[13] Poi disse loro: «Non capite questa parabola? Come comprenderete tutte le altre parabole? [14] Il seminatore semina la parola. [15] Quelli che sono lungo la strada, sono coloro nei quali è seminata la parola; e quando l'hanno udita, subito viene Satana e porta via la parola seminata in loro. [16] E così quelli che ricevono il seme in luoghi rocciosi sono coloro che, quando odono la parola, la ricevono subito con gioia; [17] ma non hanno in sé radice e sono di corta durata; poi, quando vengono tribolazione e persecuzione a causa della parola, sono subito sviati. [18] E altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine; cioè coloro che hanno udito la parola; [19] poi gli impegni mondani, l'inganno delle ricchezze, l'avidità delle altre cose, penetrati in loro, soffocano la parola, che così riesce infruttuosa. [20] Quelli poi che hanno ricevuto il seme in buona terra sono coloro che odono la parola e l'accolgono e fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno».
Concordate con me, sul fatto che ci sia ben poco da spiegare? Qualcosa c'è, eh... Qualcosa che forse sfugge, a una lettura veloce, qualcosa sul quale di primo acchito si tende un po' a sorvolare...

Ma vediamo come ne parla, e su cosa si focalizza, l'Avvenire. Cioè, voglio dire: stiamo parlando della Conferenza Episcopale Italiana. Mica cotica. Naturalmente io ho preso solo un esempio perchè mi preme evidenziare una criticità, che non si riferisce strettamente alle parole ma a un tipo di mentalità e di sentire.
Il testo integrale dell'intervento lo trovate a questa pagina: qui io riporto solo degli estratti, se no diventa 'na mattonata terrificante. Già il post è lungo (e vi chiedo perdono) perchè, se la parabola non richiede chissà quali spiegazioni, le vaccate interpretative sono tante e mastodontiche. Se mettessi pure il testo intero non finiamo più...
L'inizio della predica è già molto indicativo del disagio mentale insito in chi dovrebbe diffondere il messaggio e aiutare a capirlo:
"A un primo impatto, l’impressione che si ha leggendo la parabola del seminatore (Lc 8, 5-8.11 15), è che siamo di fronte a un contadino quanto meno sprovveduto e poco accorto, che non conosce il proprio mestiere. Getta il seme a caso, sprecando in abbondanza un bene prezioso e mettendo a rischio il buon esito del raccolto."
Cioè... È una cavolata, ovviamente. Non metto in discussione l'osservazione in sè e per sè, che ci può pure stare: quello su cui vorrei portare l'attenzione è lo stato mentale da cui, dopo aver letto e (teoricamente) provato a comprendere la parabola, può sorgere una riflessione su un simile aspetto. Pensate a quanto ingarbugliate devono essere le sinapsi dell'autore di questa predica, don Antonio Sciortino: di tutto il significato del messaggio, lui è riuscito a tirare fuori una considerazione su un aspetto totalmente trascurabile e sul quale, penso, nessuno si è mai soffermato (specialmente a una prima lettura, "a un primo impatto") e a cui nessuno può fregare di meno. Però, però, dai: è soltanto un'osservazione giusto per cominciare. Poi più avanti arriverà il punto di svolta e si capirà meglio il motivo di un inizio simile.

Certo che sì. E infatti, dopo qualche divagazione a sostegno dell'idea di incapacità di un contadino che spreca i semi gettandoli pure sul cemento, arriva uno dei punti nodali della predica:

"Quel che è stoltezza per gli uomini, è saggezza agli occhi di Dio. Non possiamo immaginare che Gesù sia uno 'sprovveduto seminatore', che spreca il seme gettandolo ovunque, a caso. Luca vuol farci capire subito che nel regno di Dio non c’è preclusione per nessuno. Nessuno è discriminato perché il suo terreno è sassoso o pieno di spine. Il cristianesimo non è un club esclusivo per eletti e santi, tanto meno una 'setta' per pochi adepti. La salvezza di Dio è universale. La 'buona novella' è per tutti, per i buoni e i cattivi."
Ottimo. Nulla da obiettare. Quando una persona, invece di rimanere intrappolata nella meccanicità di schemi mentali e modi sentire beceri, arbitrari, superficiali ("gli uccelli che mangiano i semi", o "Satana che li porta via", tutto ciò che va a comporre l'ego, lo spirito d'opposizione, il dia-volo ovvero "colui che divide"), inizia invece a intuire che c'è qualcosa che non quadra, che c'è qualcosa di diverso in merito a sè stesso, passa dall'essere "sulla strada" all'essere "in un suolo roccioso". Mano a mano che la persona riesce a far emergere questo stato dell'essere, fino a quel momento nascosto, il suo terreno cambia ed arriva piano piano, con un duro lavoro su di sè, a stabilizzarsi sempre di più sulla "buona terra", cioè quello stato in cui la "parola", ovvero l'essenza di sè, della vita, dell'Uno, dell'universo, di Dio eccetera eccetera, è manifesta, tangibile, meravigliosamente preponderante. I terreni di cui si parla sono stati dell'essere, che ognuno di noi sperimenta o può sperimentare e fra i quali oscilla, o può oscillare, in ogni minimo istante.

Perfetto. Visto? Alla fine della fiera quell'introduzione frutto di una mente petulante e "imparata" a perdersi su dettagli secondari ha prodotto comunque qualcosa di buono (anche se il don di sicuro non la intende proprio così, tutta la storia degli "stati dell'essere"...).

Due righe dopo, il disastro.
"Gesù intende seminare dappertutto, non si lascia guidare da criteri umani di opportunità ed efficienza. Semmai, contro ogni consuetudine, predilige i terreni più difficili e impervi, quelli all’apparenza improduttivi e ai margini, che nessuno prende in considerazione. Con grave scandalo dei benpensanti o di chi si ritiene d’essere, sempre e comunque, un «terreno buono». I poveri, gli ultimi, gli 'scarti di umanità' delle periferie esistenziali sono i prediletti, al centro della sua attenzione."
La solita, trita e ritrita, retorica per consolare i più materialmente sfortunati e lavarsi la coscienza. Troppo comodo. Tutto nasce dall'aver preso dei concetti stupendi e averli stuprati con interpretazioni assurde, fino a costruire un intero schema mentale definibile con un bel tecnicismo: "troiata". L'idea di base che Dio sia un essere vivente posto là fuori, da qualche parte, è la "troiata originale": le altre vengono di conseguenza.

Una di queste è la convinzione che Dio (o Gesù, scegliete voi... Tanto è sbagliata l'interpretazione di base, quindi...) "predilige i terreni più difficili e impervi". Ma non sta scritto da nessuna parte, Gesù non dice così nella parabola. Anzi, quello che risulta chiaro come il sole dalla parabola del seminatore è il fatto che il seminatore è assolutamente imparziale. I semi cadono "in parti" sui vari terreni: una sulla strada, una sul terreno roccioso, una fra i rovi e alcune sulla terra buona. A ben vedere, al limite è sulla terra buona che cadono non "una" ma "alcune parti": quindi al massimo, a voler tirare il concetto, Dio prediligerebbe le persone che "capiscono bene la Sua parola", non quelli che la ignorano. Ma noi sappiamo bene che Dio non predilige un cazzo di nessuno, essendo Dio la vita nella sua essenza e, va da sè, essendo insita in ognuno di noi... in quanto vivi.

Per non farsi mancare niente, il don collega poi i terreni difficili (cioè il livello più basso di consapevolezza, quindi appartenente alla sfera interiore, chiamiamola "spirituale" per comodità) con i poveri, gli ultimi, quelli delle "periferie esistenziali" eccetera (ovvero un concetto appartenente alla sfera sociale/socio-economica)... Devo veramente stare qui a scrivere il motivo per cui questo pezzo di retorica è una minchiata? Dai andiamo avanti, va, che il bello vero arriva adesso...

C'è infatti un'altra parte della parabola che è massacrante, una bomba atomica caricata all'ennesima potenza, un grave scandalo, questa sì, per i "benpensanti" o "chi si ritiene d'essere, sempre e comunque, un 'terreno buono'". La riporto:
[10] Quando egli fu solo, quelli che gli stavano intorno con i dodici lo interrogarono sulle parabole. [11] Egli disse loro: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché: [12] "Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati"».
BOOM! La sentite, l'esplosione? Se è vero che Dio è disposto a perdonare tutti... non tutti meritano di essere perdonati. Ovvero: se è vero che tutti hanno la possibilità di giungere a percepire (ed essere) l'essenza di sè/vita (passando, tra le altre fasi, dal perdono si sè), non tutti ci arrivano.

Capite la portata distruttiva di un'affermazione simile? Riporta clamorosamente la responsabilità in mano alla persona. Quello che fa la differenza è l'individuo, non la vita/Dio. La vita è lì, in costante manifestazione, perfetta, imparziale, ineffabile, disponibile per tutti: è il singolo che può arrivare a percepirla appieno. Tutti possono "essere perdonati": non tutti lo sono, o lo saranno, effettivamente. Quello che ha scritto il don, e che tanti "chiesaroli" pensano e di cui cercano di convincersi (sempre perchè è più rassicurante convincersi di essere chissà chi piuttosto che capire di essere, al momento, delle merde) è niente popò di meno che una bestemmia, un "nominare il nome di Dio invano". Altrochè affiancare il nome di Dio a un suino o al migliore amico dell'uomo...

È troppo comodo vivere nell'inconsapevolezza più totale "tanto qualsiasi cosa faccia poi Dio mi perdona". Sei tu che devi cominciare a ripulirti della marea di stronzate che ti hanno messo in testa. Sei tu che devi cominciare ad accorgerti che ti hanno inculato e continuano a incularti senza nemmeno la delicatezza di usare la vaselina. Se sei "sulla strada" e lì rimani... lì rimani, punto. Leggerai la parabola e non la capirai; vedrai e non saprai discernere; ascolterai e non comprenderai; non ti "convertirai" e i tuoi "peccati" non ti saranno "perdonati". È semplice, sensato, intelligente. Se non sai fare 2+2, o ti metti sotto e studi o tu, 2+2, non lo saprai mai fare. È così difficile da capire? Non mi sembra.

Eppure, a quanto pare, per tanti (troppi) è ai limiti dell'impossibile. Capite lo stato mentale malato da cui emergono questi e milioni di altri abomini?  Voglio dire, basta un'occhiata distratta alla società in cui viviamo: è lo specchio, il riflesso di qualcosa che è andato e sta andando leggermente male nella testa e, prima ancora, nel sentire delle persone.

Alcuni hanno interesse affinchè la responsabilità personale venga sempre e comunque delegata a qualcun'altro o a qualcos'altro; altri assorbono i concetti come vengono loro ripetuti, senza elaborarli, senza farli loro, senza comprenderli. In entrambi i casi il risultato non può che essere uno e uno solo: una vita inconsapevole, da zombie col bisogno di mangiare e scopare, senza porsi uno straccio di domanda o dandosi frettolosamente la risposta che il mondo circostante ha creato e trapanato nella testa. Alla faccia del pensiero critico...

Ma sentiamo ancora il don. Poi non rompo più, promesso. Ecco un bell'esempio per mettere in evidenza come le parole (per natura neutre) acquistano o perdono di sostanza in base a chi le pronuncia:
"Gesù, spargendo il seme dappertutto, non intende distinguere né giudicare i diversi terreni [detto da uno che, due righe prima, parlava della "predilezione di Dio verso i terreni più difficili e impervi". Capite la confusione?]. [...] Con Dio nessuno ha l’esclusiva del terreno buono, nessuno può rivendicarne il monopolio [?]. Anche se continui sono i tentativi di manipolare e strumentalizzare la religione per altri fini e scopi [sic!]. O a vantaggio di interessi particolari, inclusi quelli economici e politici [sic!]. Al suo cospetto non ci sono privilegiati o esclusi per sempre, perché in ogni essere umano coesistono sassi, spine e terra buona. La parabola del seminatore appare così chiara che non avrebbe bisogno di commenti. Ma se Gesù (o la Chiesa primitiva, non importa) [beh, un po' importerebbe...] ha voluto darne l’interpretazione, è perché c’è qualcosa di più profondo, che sfugge all’apparenza."
Cioè, cosa? Dai dai dai, fremo dalla curiosità (tra parentesi, a differenza del pezzo appena citato, nel quale le parole potevano anche starci se interpretate bene, da qui in poi è quasi tutto un delirio).
"Luca [io ho preso la versione di Marco, lui Luca, ma cambia niente] ne fa una 'chiave di lettura' non solo del Vangelo, ma della vita stessa della Chiesa. Con un duplice scopo: primo, indicare quale deve essere l’atteggiamento dei discepoli nell’ascolto della Parola; secondo, spiegare che, nonostante gli apparenti fallimenti di Gesù e gli insuccessi della prima comunità dei cristiani [?], il buon esito della parola di Dio è garantito. Luca ci dà un messaggio di speranza e ottimismo."
Di "prendersi la responsabilità della propria condizione e mettersi sotto a lavorare di brutto su di sè" no, eh...

21 luglio 2017

Chester Bennington e riflessioni sul suicidio

chris cornell - chester bennington
Chris Cornell e Chester Bennington

Volevo scrivere un post sul mio ritorno di fiamma verso certe tematiche, generalmente (e superficialmente) definibili come "spirituali", dopo un anno e mezzo abbondante di "allontanamento" da esse causa saturazione mentale sull'argomento, ma poi ho saputo della morte per suicidio del cantante dei Linkin Park, Chester Bennington, e quel post originale per il momento lo casso in favore di una riflessione, sempre di un certo tipo, sul suicidio stesso. (Comunque, per i fan "di lunga data" del blog, sappiate che al momento quel fuoco di cui ormai più di un anno fa avevo scritto quasi un epitaffio, è tornato bello vivo e cazzuto come al solito)

Solo un paio di mesi fa un altro artista rock, Chris Cornell, leader dei Soundgarden e degli Audioslave, se n'era andato per suicidio. Ieri, giorno del compleanno di Cornell, il suo amico Chester Bennington ha messo anch'egli nero su bianco che non ne poteva più della sua vita.

E questo evento catalizzatore, unito alla nuova e recentissima sfiammata personale verso il lato nascosto del mondo e della vita, mi ha fatto sorgere una considerazione sull'idea del suicidio, troppo spesso etichettata come "codardia" o "debolezza". Di codardo e di debole, cari miei, non c'è proprio un cazzo di niente. Anzi, vi dirò di più: pensare al suicidio è segno di sanità mentale.

Mi spiego, perchè qua già mi vedo i rompipalle che pensano io stia istigando al suicidio. È evidente, sotto gli occhi e sotto la pelle di chiunque, che non siamo felici. Il 99%, a essere ottimisti, delle persone non è felice. E con "felicità" intendo "realizzazione", la consapevolezza piena di sè stessi, della realtà, dell'universo, di Dio, della vita. Chiamatela come volete: è quella roba lì. Ognuno e ognuna di noi non è davvero a posto con sè stesso e con sè stessa. Chi sostiene il contrario mente. Con buona probabilità in buona fede, ma mente, a sè stesso in primis.

Percependo questo stato di perenne insoddisfazione, e non avendo le nozioni quantomeno teoriche per innescare un processo diverso e/o la lucidità necessaria a capirle autonomamente, di norma l'individuo cerca aiuto all'esterno: nelle altre persone, in organizzazioni, entità, istituzioni, gruppi, attività, usi e costumi eccetera. Ma il fatto è che: organizzazioni, entità, istituzioni, gruppi e similari sono in qualche modo corrotti e hanno l'obiettivo di perpetrarsi nel tempo; le persone, salvo quelle due o tre davvero sincere e amiche, sono malate di mente peggio di te; la cultura, gli usi e i costumi sono intellettualmente simpatici, ma rappresentano dei passatempi o informazioni rilevanti ma totalmente errate nell'interpretazione; le attività possono essere utili per esprimere sè stessi e scoprire parti di sè, ma le errate interpretazioni culturali portano sempre a far ricadere su di loro la possibilità per noi di essere felici, convincendoci così che possiamo essere felici, e che siamo effettivamente felici, solo quando svogliamo quella o quelle determinate attività.

Insomma: dentro di noi sentiamo merda e dal mondo esterno, ormai assurto a nostro salvatore, arriva ancora merda. Dopo anni e anni di sterco a palate quotidiane, una persona normale deve necessariamente arrivare a un punto di saturazione, a un momento in cui non ne può più di sentirsi addosso, sulla pelle e sotto la pelle, tutta questa miseria, questo schifo, questa stupidità e ignoranza. Deve arrivare un attimo in cui si ferma e dice: dev'esserci qualcos'altro, questo stato ridicolo e folle di conflitto e miseria costante non può essere l'unico esistente. Un individuo normale deve arrivare a dire: "Mi sono rotto il cazzo". Se non ci arriva significa che non ne ha avuto abbastanza, che non percepisce ancora la gravità immane della sua situazione, che si è perso in qualche illusione della felicità, che per lui è normale e che a lui va bene così. Per carità, liberissimo di vivere come meglio crede, ci mancherebbe. È il bello della natura/vita: dà per quello che si è, senza giudicare, senza giusto o sbagliato, bene o male. Quello che trovo allucinante è definire uno così "normale", mentre uno che pensa al suicidio è "malato" e "ha bisogno di aiuto".

Ovvio: uno può rompersi il cazzo senza arrivare al pensiero di ammazzarsi. Questo è il caso limite. Ma per me è più malato chi, dopo 50 anni di merda, è ancora convinto che in qualche modo vada bene così, che la vita sia così e stop: un perenne conflitto interiore sempre più ingarbugliato e schizofrenico. Questa è una persona che si è arresa, ed è centomila volte più bisognosa di aiuto rispetto a un ventenne con l'idea di impiccarsi.

Parlo per esperienza personale. Quasi una decina di anni fa (avevo 20-21 anni) mi era passato per la testa di uccidermi. Ero molto insoddisfatto della mia vita, del fatto che mi sentivo uno schifo con me stesso e non sapevo come uscirne o non ne avevo la forza, e niente e nessuno intorno a me sembrava poter capire il mio disagio costante e consigliarmi bene. Sentivo solo cazzate, vedevo gente stupida e nessuna minima alternativa. Una sera, supino nel mio letto, ero intento a pensare a un modo per finirla senza sentire troppo dolore (ricordo che pensai di buttarmi sotto un treno, ma poi scartai immediatamente l'opzione: non sopportavo chi si ammazzava così, magari pure in orario di punta, perchè creava disagi a me e agli altri pendolari, e io non volevo essere maledetto dai miei "compagni di treno") e ho avuto un sussulto, mentale e fisico: "Ma che cazzo sto facendo? Questo non sono io. Io non sono quella roba qua. Ma vaffanculo! Adesso basta, faccio io, cazzo". "Casualmente", poi, di lì a poco nella mia vita è entrato Zeitgeist, che ho già detto più di una volta essere stato la soglia oltre la quale ho scoperto un mondo un tantino diverso da quello che credevo. Dopo è arrivata la spiritualità e un mucchio di altre cose che non sto qui a ripetere... C'è un intero blog di circa 400 articoli...

Pensare di suicidarsi è un catalizzatore mostruoso. L'insoddisfazione è uno strumento importantissimo, del quale il suicidio è il polo estremo. Ricordando per l'ennesima volta che ogni esperienza in questo universo si compone di due polarità che hanno, dunque, come principio di funzionamento lo stesso dell'elettromagnetismo, nel momento in cui si arriva al pensiero di togliersi la vita significa che c'è tantissima energia in circolo, una carica potenziale altissima, estrema, un attrito pazzesco che può sfogarsi in due modi: o ci si ammazza effettivamente; oppure si prende in mano il timone e ci si decide a scrollarsi di dosso tutto lo schifo nel quale si è immersi. Qui sta tutto alla predisposizione e alla lucidità individuale, ma in entrambi casi una persona che arriva a un punto simile è degna di essere rispettata, perchè significa che ha percepito molto chiaramente il livello di miseria nel quale TUTTI NOI NORMALMENTE VIVIAMO ed è arrivata a un punto NORMALE di non sopportazione massima.

È potenzialmente un trampolino di lancio straordinario. Riuscire a reagire al pensiero di suicidarsi, invece di rimanerne schiacciati, mette in moto dei processi e dei meccanismi dei quali non siamo nemmeno consapevoli ma che portano a dei cambiamenti enormi a livello di vita, e non parlo necessariamente di stravolgimenti clamorosi: possono essere apparentemente piccole cose, un interesse, una persona, un cambio d'opinione, una nuova tendenza, qualsiasi cosa, piano piano.

Non mi riferisco necessariamente al caso di Bennington (pur essendo coinvolto anche lui), ma è troppo comodo giustificare un suicidio dicendo "già da tempo beveva e si drogava", sottintendendo che l'alcol e la droga sono le cause che hanno portato al gesto finale. Troppo comodo ed evidentemente sbagliato perchè tutto, come sempre, è uno strumento, il cui uso è determinato dalla ragione dell'individuo. Io posso essere un alcolizzato e drogato perchè insoddisfatto della mia vita, e dunque utilizzo questi due strumenti come sfogo, come segnale della mia insoddisfazione (esattamente come la febbre non è la malattia, ma è un segnale di malattia del corpo); ma potrei anche bere e drogarmi perchè sono incuriosito dagli effetti che queste sostanze hanno sul mio corpo e sulla mia psiche. Sono due intenzioni diverse, che si manifestano in modalità diverse, pur usando gli stessi medesimi strumenti.

Il problema non è pensare al suicidio. Il problema è essere assolutamente, indissolubilmente, categoricamente convinti di essere felici. Se qualcuno ne è convinto, significa che si è arreso. Se qualcuno si suicida, significa che si è arreso, ma solo dopo aver capito l'orrore che gli altri chiamano "normalità".

Chester e Chris: vi voglio bene.



P.S.: faccio una breve divagazione sul motivo per cui la morte di Bennington è, per quelli che hanno più o meno la mia età, diversa da tutte (o quasi) quelle che hanno riguardato altri cantanti e musicisti negli ultimi anni.

Io personalmente l'ho sentita di più. Di più di Cornell, più di Prince, di George Michael, di David Bowie. Più di Amy Winehouse, perfino più di Michael Jackson. Ed è per questo che ho scritto il post: perchè è un evento che fa da catalizzatore, che smuove qualcosa dentro a un livello piuttosto profondo, come non è accaduto prima con gli altri.

Il motivo è presto detto. Per quelli nati dalla seconda metà degli anni '80 ai primi '90, i Linkin Park sono uno dei gruppi emersi, e da noi scoperti e apprezzati, durante l'adolescenza, notoriamente il periodo nel quale si formano molti dei gusti personali e affettivi veri dell'individuo. È in questi anni che una persona inizia a guardarsi intorno in maniera un po' più autonoma rispetto alla famiglia e all'ambiente che ha guidato la sua infanzia. Sono gli anni dell'affermazione di un "io" in contrapposizione agli "altri". Sono gli anni della scoperta, delle prime esperienze, del San Tommaso che deve vedere e provare, prima di poter credere.

I Linkin Park sono proprio una di queste scoperte. A differenza di, che ne so, David Bowie che ha iniziato la sua carriera artistica internazionale negli anni '60, e dunque era in circolazione già da decenni ed è stato soltanto "tramandato" a noi giovini pargoli in preda ai primi pruriti alla fine del millennio, Bennington e i suoi sono "nostri", della nostra generazione, "li abbiamo scoperti noi" nella nostra adolescenza e ci hanno accompagnati, a differenza di Amy Winehouse, per un po' di anni anche oltre, nel periodo di maturazione che va dai 20 ai 30.

È questo legame, diverso, a scuotere in misura maggiore. Lo stesso dev'essere stato per chi, negli anni '80, da adolescente ha vissuto la "nascita artistica" di George Michael o, poco dopo, quella di Chris Cornell e dei Soundgarden, per non parlare di Michael Jackson (che da piccolo ascoltavo tanto, ma perchè me l'aveva fatto scoprire mio zio).


P.P.S.: comunque sia, alla fine di tutto il discorso, resta il fatto che quando ascolto una canzone di Cornell o dei Linkin Park mi sale una certa tristezza, che nel giro di mezzo secondo netto si trasforma nell'immagine di me che scuoto Chester/Chris mentre incazzoso gli sparo in faccia un "ma porca troia, cos'hai fatto?! Ma perchè ti sei ammazzato, porcoddue!"