Come avevo preannunciato, ecco il mio post incompleto di ormai un mese e quasi mezzo fa. Buona lettura!
Alla luce di quanto accadutomi poco più di un mese fa (una discussione piuttosto animata con un mio carissimo amico, ai limiti del litigio, nella quale ho provato per la prima volta dopo eoni una dirompente rabbia con un retrogusto di frustrazione e un goccio di delusione. Alla fine, comunque, tutto si è ricomposto), qualche giorno fa sono sovvenute alla mente alcune riflessioni. Sì, esatto, alcune delle mie riflessioni: quindi sapete già di cosa parlerò ;-)
Sono ormai alcuni anni (sticazzi!) che mi interesso di tematiche in qualche modo attinenti alla spiritualità e alla religione, non intesa come ideologia/istituzione ma come conoscenza di sè, e tante, innumerevoli, infinite volte, mi sono imbattuto in affermazioni del tipo “ama tutti indistintamente”, “perdona”, “Dio è amore infinito incondizionato”, “non identificarti con la paura, l’odio e tutto ciò che non è amore”, “tu sei divino”, “siamo tutti uno”. E, condividendo appieno queste bellissime idee, mi sono adoperato costantemente per riuscire a trasformare una serie di parole, belle ma sempre parole, lette o udite, in qualcosa di reale nella vita quotidiana mia e di quelli con cui entro in contatto. Molte volte ho sorvolato su emozioni negative causate da eventi sgradevoli, in modo tale da non cascare nel tranello della frustrazione, della rabbia e di altri demoni interiori.
Fino a che è arrivata una fragorosa esplosione, quasi improvvisa. Questa volta non ho tentato di fuggire la rabbia perchè “io sono superiore, sono amore” e cose simili: l’ho sentita crescere, insieme alla sensazione che fosse arrivato il momento giusto per fluire e consapevolmente diventare un tutt’uno con essa. E, abbastanza a sorpresa, mi sono sentito bene. Ho capito che non è la rabbia in sè a farci stare male, ma piuttosto il fatto che noi ci diciamo continuamente che non è bello/giusto/intelligente arrabbiarci, che è meglio stare calmi, che non siamo deboli, che siamo all’altezza. E cosa generano questi pensieri? Frustrazione. In pratica, ci arrabbiamo e siamo frustrati perchè siamo arrabbiati. Così cerchiamo di fuggire la rabbia, di nasconderci da essa, di non riconoscerla, di trattenerla, di non identificarci con essa. Ma se invece provassimo il contrario? Se diventassimo consapevolmente quel fiume burrascoso, se la riconoscessimo, se la accettassimo? Il risultato è un po’ strano: si sente di essere incazzati neri… ma non si è arrabbiati di esserlo, anzi si è felici di esserlo.
E non è una cosa da poco, se pensiamo ai vari discorsi sull’amore, su Dio e su noi stessi. La realtà in cui viviamo è dualistica e, in quanto tale, relativa. Per il nostro esempio, prendiamo l’amore e tutto ciò che non è amore, ovvero odio, rabbia, tristezza, paura eccetera. Si dice sempre che Dio, in qualunque forma lo si intenda, è amore incondizionato, l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Quindi Dio è assoluto, ovvero non relativo, ovvero uno e unico, senza contrapposizioni: un “è” senza un “non è”, dunque totale, infinito. Conseguenza di queste affermazioni è che qualsiasi cosa/persona/essere/emozione/pensiero/pianeta/universo/brufolo è Dio. Nel nostro caso, sia l’amore che tutto ciò che non è amore, e quindi anche l’odio, la paura, la rabbia, hanno la stessa precisa identica “dignità” di esistere e di essere vissute in quanto manifestazioni diverse della stessa entità, comunque la si pensi e immagini.
La confusione sorge spontanea: ma Dio non è solo amore? Dio è l’assoluto, non contrapposto a nulla, quindi è sì amore ma non il tipo che intendiamo noi. Il “nostro” amore non è assoluto, ma relativo perchè inerente a questa realtà e soltanto a questa, la quale è “figlia” della Realtà, quella assoluta, infinita. Avete presente una cellula? E’ una, da sola, intera: poi si scinde e da essa ne nascono due “a sua immagine e somiglianza”. Da una (assoluto) ne otteniamo due (relativo). In questo modo quello che noi possiamo percepire come Amore assoluto genera due suoi “sottoinsiemi”: l’amore e tutto ciò che non è amore. Il problema sorge quando, di punto in bianco, diamo più attenzione positiva all’amore (con la “a” minuscola) e perseguitiamo il suo opposto, come se fosse un tizio che si spaccia per il “figlio di Dio” ma che in realtà è un impostore.
Come in tutti i campi, siamo noi a fare casini: se è vero che l’odio si percepisce come un qualcosa di negativo, non è per questo motivo che in quei momenti stiamo male, ma piuttosto per la nostra convinzione che esso sia assolutamente sbagliato e dunque da ripudiare con tutte le nostre forze. Se invece di opporsi perchè identificato come moralmente sbagliato lo si accettasse, accadrebbe un piccolo miracolo: lo si trascenderebbe e improvvisamente si capirebbe quanto assolutamente meraviglioso sia. Siamo noi ad erigere una resistenza e così, invece di fluire lisci con l’esperienza, ci piantiamo mentre il fiume scorre travolgente ai nostri piedi.
Creiamo confusione tra “amore” e “Amore”, tendendo il più possibile al secondo ma scambiandolo con il primo nel farlo. (Piccola parentesi: in questo modo, tra l’altro, sorge il conflitto Dio-Satana: perchè riduciamo la grande D. da assoluto a relativo e quindi, per forza di cose, diventa contrapposto a tutto-ciò-che-non-è-Dio)
Sarebbe importante a questo punto chiarire cosa sia necessario fare per valicare la soglia del relativo e avere l’esperienza, anche di solo un secondo, dell’assoluto, cioè provare la vera libertà. Qualcuno una volta disse che la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta, e direi che come affermazione calza a pennello. Quindi, domanda: cosa fare? Come fare? La risposta è molto semplice da dare, ma molto meno da applicare: niente. “Come niente?” Niente. Restando all’esempio della rabbia, quello che ho notato è una separazione tra l’emozione “rabbia” (fattore oggettivo) e il mio stato emotivo (fattore soggettivo) che ha generato un senso di liberazione e di pace non contrapposta a nulla, quindi assoluta. L’errore che si potrebbe commettere sentendo dire che bisogna essere “felici di essere incazzati” è quello di intendere la felicità come relativa, contrapposta all’infelicità: no! Non bisogna essere felici: la Felicità arriva per i cazzi suoi, inaspettata e totale, non è necessario fare nulla. Anzi, proprio in quel nulla risiede l’opportunità di provare l’assoluto e non appena si riempie il vuoto con giudizi, convinzioni e altre menate varie ci si sta “opponendo” all’esperienza. Sia che si dica “sono arrabbiato ma non voglio esserlo” oppure “sono arrabbiato e mi piace/mi deve piacere” ci si sta bloccando nel relativo perchè si sta facendo qualcosa.
Ma allora come dovremmo reagire? Dovremmo rimanere indifferenti e apatici? No, neanche questo. L’indifferenza si pone a metà strada nel continuum felicità – infelicità e, di nuovo, dove si trova questo continuum? Ma nel relativo, diamine! Occhio a non confondere indifferenza e apatia col non reagire, col non fare niente, perchè non è così: è sempre e comunque una reazione, dunque un qualcosa che si fa e che va a riempire il vuoto dell’assoluto.
Vedete come è complicato spiegare cosa sia il nulla? Se anche parlassi dell’accettazione come via per poterlo vivere, il concetto verrebbe facilmente frainteso come “passività, inerzia”, che in realtà non c’entrano una mazza. Finchè si continua a pensare e a convincersi che l’amore è bello e l’odio è brutto non si riuscirà a comprendere fino in fondo la Realtà, perchè si tenderà a vedere tutto in termini di polarità invece che di unità, di 2 invece che di 1. Ma vedere tutto in termini di 1 non significa essere sempre felici o sforzarsi testardamente di provare amore per lo stronzo che ti risponde male (reprimendo la rabbia e generando frustrazione), anzi in questo modo si nega letteralmente una metà del quadro, che sarà lì per un motivo o no? E’ il concetto della meditazione, dell’osservazione, dello scorrere con il fiume, del lasciare che sia. Cosa? Quello che è, tutto quello che è, in ogni singolo e infinitesimale istante. Si torna, così, anche al concetto di “fede”: non importa cosa accada, è Giusto così e me ne farò una ragione.
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