10 dicembre 2014

Reincarnazione reiterata e multiversi: ci sta?

Parto dall’ultimo post su Nietzsche e la reincarnazione per esprimere un paio di considerazioni in merito. Oggi “giochiamo” un po’ con delle idee strane, dai. Vediamo cosa ne esce.

L’ipotesi di Nietzsche (ma non poteva chiamarsi come si legge: “Nice”?!) sull’eterno ritorno è estrema e affascinante come poche. In pratica, per chi non avesse letto l’articolo precedente o comunque non avesse idea di che si tratti, secondo il buon Federico ognuno di noi è destinato a ripetere all’infinito le stesse azioni, gli stessi pensieri, le stesse parole, gli istanti della vita attuale in ogni futura reincarnazione. Non solo: l’intera vita che sta vivendo qui, dalla nascita alla morte, è esattamente identica a tutte quelle che ha vissuto in precedenza. L’individuo si ritroverebbe, quindi, in un ciclo infinito di esperienze nascita-morte uguali spiccicate l’una con l’altra. Io, Pinco Pallino, nato il 30/02/1987, figlio di Tizio Pallino e Tizia Caio, residente a Cessetto Di Sopra eccetera eccetera. E così all’infinito, con tutte le gioie e le frustrazioni ripetute sempre alla medesima maniera, uguali, identiche, immutabili, pari pari.

Come veniva fatto notare nell’articolo, al di là delle reazioni di noia, paranoia o depressione che una prospettiva del genere può facilmente provocare in persone poco avvezze ad argomenti non prettamente consumistici, un grande significato conseguente a questa teoria è l’esistenza di un solo e unico momento: quello presente, il famigerato “qui e ora” sbandierato a destra e a manca fin troppo diffusamente per preservarne il vero senso. Il tempo così come lo intendiamo noi non avrebbe ragione di esistere: se ogni istante è già accaduto infinite altre volte e accadrà altrettante infinite volte, si può davvero parlare di “passato” e “futuro”? Concettualmente, per poter “funzionare” bene, il tempo ha bisogno dei cambiamenti, di modifiche, di movimento: prima mi sentivo in un certo modo, ora in un altro e domani chissà. Ma se questi tre momenti diversi li ho già vissuti perfettamente identici altre infinite volte e li vivrò altre infinite volte… dov’è il cambiamento? Dov’è il movimento? Dov’è il tempo? Ergo: esiste solo il presente.

Altri pensatori la vedevano in maniera leggermente diversa, per cui ogni reincarnazione non sarebbe stata la copia perfetta della precedente ma avrebbe, invece, presentato delle piccole differenze così da permettere una sorta di “cammino evolutivo” personale. Per quel che conta, io mi rispecchio di più in questa versione “alleggerita”: non ci si ritrova imprigionati in un ciclo infinito senza possibilità di scelta e, concettualmente, ripropone a livello metafisico ciò che è possibile osservare virtualmente in ogni dove nella natura: l’evoluzione, la crescita, il movimento della vita. In definitiva, la vita stessa. Si rinasce sempre Pinco Pallino ma in questo caso per un numero finito di volte: quando arriva quella buona, ovvero quando si sono “imparate tutte le lezioni necessarie” (equivalente del famoso “giudizio” cristiano), si cambia e si rinascerà chissà dove, quando e chi.

Così intesa, però, viene a mancare l’esistenza esclusiva del “qui e ora” e il tempo, subdolo e infingardo, riprende il suo ruolo centrale di metronomo. Ma forse no.

Facciamo un ragionamento, esplicitiamo un attimo meglio la questione, giochiamo un po’ dai. Io, Pinco, nasco qui il giorno tal dei tali, vivo la mia vita e inesorabilmente tiro le cuoia dopo tot anni. Facciamo che voi siete vivi, invece. Ma non abituatevici troppo… Abbiamo così due punti di vista dai quali vedere la faccenda: io che crepo e voi che ne testimoniate.

1) Io che crepo: dal mio punto di vista, l’universo e le sue dimensioni spazio-temporali si dissolvono insieme a me e io vengo catapultato o indietro fino al giorno della (ri)nascita come Pinco o, se sono riuscito a comprendere meglio un paio di cosine interessanti, in qualche altro luogo in chissà quale tempo, in una esperienza per me completamente nuova.

2) Voi che ne testimoniate: per come la vedreste voi, il mio corpo sarebbe lì steso immobile, svuotato della mia presenza, e la vostra esperienza continuerebbe tranquillamente.

E qui entra in gioco il tempo, le linee temporali e gli universi paralleli, robetta utile per provare a capire un po’ di più di cosa si sta parlando. Assumendo che io, morendo, tornassi in qualche modo indietro nel tempo fino al giorno della mia (ri)nascita, avrei una situazione di conflitto con il “me originale”, quello che effettivamente è nato qui e ha vissuto fino all’attimo della morte. Classico paradosso temporale. Quello che accade, invece, è il “trasferimento” verso un’altra linea temporale “parallela” a quella attuale. Dunque c’è un “salto” al giorno tal dei tali dell’universo parallelo più “vicino” al nostro in termini di esperienze e di avvenimenti. Rinasco come Pinco, nello stesso luogo, nello stesso istante, la stessa famiglia eccetera e rivivo un’esistenza molto simile alla precedente, con delle piccole variazioni dettate tendenzialmente dal mio modo di “prendere” e reagire agli avvenimenti. La mia vita attuale diventa in pratica il punto di partenza della prossima, la quale sarà la base della successiva e così via.

Si capisce che in questo modo il tempo per come lo intendiamo viene cancellato in toto? Infiniti universi, infinite linee temporali. Ogni momento esiste sempre, all’infinito. Io sto nascendo (e morendo) proprio… ora. E ora. E ora. E ora. E ora. Però c’è anche il movimento: a un certo punto sarò giudicato “positivamente” e dunque per me non sarà più necessario rinascere come Pinco. Quindi un tempo esiste, ma non è quello che intendiamo noi. Trascendente il tempo “normale”, potremmo chiamarlo “tempo animico”, relativo all’anima, che porta con sè la memoria delle esperienze vissute in “passato”, senza risentire di morti fisiche e “salti” tra universi. Mettendola in termini informatici, che fa tanto figo, la mente e il corpo che ci ritroviamo in ogni incarnazione sono l’equivalente naturale della memoria RAM: ogni volta che spegniamo il computer, la RAM viene svuotata, resettata e i dati presenti vengono cancellati. L’anima è il disco rigido: non importa quante volte si spegne il computer perchè i dati memorizzati lì saranno presenti anche al prossimo riavvio e a quello dopo, e a quello dopo ancora e via di questo passo.

E’ tutto figurato, eh, sono tutte immagini fittizie per convogliare qualcosa di più profondo. Se poi funzioni effettivamente così non ne ho idea e non è nemmeno l’aspetto più importante. Lo scopo, come sempre, è riuscire a smuovervi qualcosa dentro e provare a farvi giungere a un piccolo shock interiore, un blackout estatico che faccia emergere un sottile e profondo entusiasmo. E’ quella stessa sensazione che ho provato io dopo aver letto l’articolo su Nietzsche e che mi ha spinto a riportarlo qui sul blog e a scrivere queste considerazioni.

Non dovete aspettarvi dagli altri la verità. Come fate a dire che un’informazione è vera? Perchè viene da una fonte piuttosto che da un’altra? Come fate a essere certi, ad esempio, che oggi a Karachi è esplosa un’autobomba? Piccolo consiglio: non siate passivi. Io non lo so se l’intuizione di Nietzsche e/o la versione “light” siano vere, ma nel leggerle hanno generato un attrito, si è creata una visione alternativa che prima non c’era e il contatto (dualismo) tra questa e la mia visione, preesistente, ha fatto partire un processo di ragionamento avente come risultato una nuova sintesi. Dal dualismo (tesi-antitesi) emerge una terza forza (sintesi), frutto del “lavoro” attivo personale svolto per elaborare i due blocchi di informazioni, armonizzarli e unirli. Congiungere gli opposti.

Comunque sia, torniamo a noi. Scendendo un po’ dalle stelle del multiverso, la teoria della “reincarnazione reiterata”, diciamo così, è la spiegazione migliore che ho trovato finora per un fenomeno che trovo straordinariamente affascinante nel suo mistero: il deja-vu. Per essere precisi, il “deja-vecu” (un tipo di deja-vu) ovvero la netta sensazione di avere già vissuto il momento e la circostanza che si sta palesando ora nella nostra realtà più strettamente circostante. Penso sia capitato anche a voi almeno una volta nella vita. A me succede ogni 3 settimane in media, a occhio e croce. Sono lì tranquillo, vivo la mia vita normalmente e poi, all’improvviso, sorge la nettissima sensazione di avere già “vissuto” quella determinata circostanza: “rivedo” esattamente lo stesso scenario che mi circonda, “ri-sento” esattamente gli stessi suoni, “ri-provo” esattamente le stesse emozioni. E’ tutto incredibilmente identico e dura, boh, 5-6 secondi, dopodichè la “finestra” si chiude a la magia finisce.

Ho provato a cercare “deja-vecu” su Google e il primo risultato è l’autorevole Treccani.it, che riporta la definizione del fenomeno. Eccola:

déjà-vécu   Sensazione di aver già vissuto una particolare situazione (dal franc. «già vissuto»). Classificato come un disturbo qualitativo della memoria, la sensazione di aver già vissuto un evento costituisce più frequentemente un disturbo dell’affettività associata alla memoria e si realizza nello sperimentare come familiare una condizione mai vissuta in precedenza. Come stato dissociativo, può essere presente tanto in malattie neurologiche, quanto in patologie psichiatriche come psicosi acute o croniche, disturbi dissociativi o gravi disturbi d’ansia. “

Ora, è vero che la mia memoria non rappresenta esattamente l’anello di collegamento con il prossimo passo dell’evoluzione umana, ma un paio di cosette riesco a ricordarle anch’io e so riconoscere la differenza tra un ricordo “normale”, che risiede nella memoria, e uno che non è nemmeno un vero ricordo ma ha un’intensità pazzesca. Non è nemmeno un vero ricordo perchè non ho la minima consapevolezza di cosa stia per accadere fin quando non accade. Non ricordo quella determinata circostanza fino all’attimo esatto nella quale si verifica. E comunque sia, un ricordo, per quanto bello o intenso, non riesce neanche lontanamente a raggiungere una veemenza così energica come quella del deja-vecu. Chiamarlo “disturbo qualitativo della memoria” mi sembra abbastanza denigratorio ed erroneo o, detto con un termine tecnico: una cagata. In salsa medico-scientifica, ma una cagata.

E, già che ci siamo, vorrei sapere anche quale razza di bislacco disturbo mentale sia riuscito a convincermi, appena mi svegliai un giorno di qualche anno fa, oltre ogni possibile dubbio che quella stessa mattina in università avrei fatto amicizia con qualcuno, cosa che puntualmente accadde un paio d’ore dopo.

Chiaramente, l’ipotesi della “reincarnazione reiterata” spiegherebbe perfettamente la faccenda: avendo già vissuto un numero imprecisato di volte quei momenti, ed essendo essi “memorizzati permanentemente nell’anima”, è solo una questione di attimi di “apertura sensoriale”, diciamo, che ci permettono di dare una sbirciatina temporanea su quello che ha da venì. Non fa una grinza. Magari non è la spiegazione reale, ma non fa una grinza.

Un altro aspetto affascinante ma che diamo puntualmente per scontato perchè “tanto è già stato tutto spiegato dagli scienziatoni dell’università di Thisdick” è quello relativo alle propensioni naturali, quei talenti innati, quelle cose che ci vengono più facili praticamente da quando nasciamo. Io, per esempio, ho scoperto di essere naturalmente portato per la lingua inglese: già da quando iniziai a studiarla in terza elementare (credo fosse la terza… Comunque giù di lì…) non la trovai particolarmente complicata e mi accorsi, nel tempo, che non ebbi mai troppo bisogno di sbatterci violentemente la testa a nastro per capirne le regole grammaticali e di sintassi. Ovviamente ero sempre il migliore della classe tanto che spesso, quando c’erano le verifiche, i professori mi mettevano a farle alla cattedra per evitare che suggerissi le risposte a mezzo mondo.

Alle superiori c’erano un altro paio di miei compagni piuttosto bravi ma qui stava la differenza: io quasi non aprivo neanche il libro e, giuro su Dio, non ho mai preso un voto più basso di 8 (una volta in seconda superiore, non per tirarmela, ma è andata proprio così, presi 8 e mezzo su un massimo di 8 da tanto feci bene la verifica); loro studiavano, studiavano e studiavano ed effettivamente erano bravi, ma a fine anno si beccavano sempre una valutazione più bassa della mia. Mentre per loro era necessaria una “forzatura” per riuscire a imparare la lingua di Albione, a me veniva quasi spontanea, naturale. Ero, al contrario, una discreta chiavica in geometria. In matematica andavo piuttosto bene, ma dovevo studiare parecchio: alle medie avevo un compagno che invece era un genio e il libro lo usava come fermacarte.

Come mai? Da dove vengono queste propensioni? Perchè nasciamo già predisposti verso determinate attività? Anche qui: “reincarnazione reiterata” ma nella versione “alleggerita”, non quella di Nietzsche perchè non ammette un qualsivoglia cambiamento, per cui a rigore noi verremmo creati direttamente con determinate caratteristiche statiche e ce le porteremmo dietro immutate per l’eternità. Rimarrebbe sempre la domanda: da dove vengono e per qual motivo? Con la versione alleggerita, invece, a ogni incarnazione si vivono quasi le stesse esperienze e oh, vivile una volta, vivile due, tre, quattro, cinquanta, millemila volte: alla fine qualcosa ti rimane, no? Evidentemente, per tornare al mio esempio, il mio compagno delle medie sarà arrivato a un punto nel quale si è innamorato della matematica e da lì in avanti ha ogni volta approfondito la materia; analogamente, io ho già avuto tante altre occasioni per entrare in contatto in qualche modo con il mondo anglo-sassone e il suo idioma (tra l’altro l’occasione ce l’ho anche oggi e non perchè l’inglese è diffusissimo ovunque, ma per questioni personali).

Lo ripeto per l’ennesima volta: non lo so se le cose stiano davvero così, non mi importa e non dovrebbe importare nemmeno a voi. Chi se ne frega! Qui si sta cercando di fare un esercizio, un “lavoro” di ragionamento dettato dalla continua collisione tra il vostro punto di vista e un altro. Punto. Dualismo in azione, polarità opposte che generano una carica potenzialmente liberatoria. Poi i giudici siete voi e solo voi, non fidatevi delle presunte verità altrui e non subitele passivamente: elaboratele, usate la vostra intelligenza perchè guardate che la utilizziamo effettivamente molto, ma molto meno di quanto crediamo. E’ molto più facile barricarsi dietro la propria presunta superiorità intellettuale e fare gli snob pieni di compatimento e pena verso tutto ciò che esula dal piccolo castello di sabbia che si è così faticosamente costruiti nel corso di anni e anni di comoda assimilazione della stessa minestra tiepida.

La meraviglia è che abbiamo la possibilità di prendere anche la più grande vaccata nella storia dei multiversi e “farla nostra”, ovvero: prenderla, elaborarla con tutto noi stessi (e non solo con la mente o con il cuore o con il culo) ed estrapolare chirurgicamente quell’aspetto di verità che si palesa sotto innumerevoli forme in ogni dove. In quel momento abbiamo creato un’informazione fino ad allora completamente assente, la quale diverrà una nostra verità. Tesi-antitesi-sintesi.

Si capisce che l’idea di “vero” e “falso” cambia? Non è più inerente al mero contenuto dell’informazione, ma al modo con il quale “lavoriamo” l’informazione grezza stessa. Il famoso motto del vecchio Fox Mulder in X-Files, “la verità è là fuori”, mmm… Non solo, direi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Affascinante, non ci sono altre parole.