Dal treno ho visto una scena bellissima, oggi, quasi poetica. Anzi, proprio poetica. Ha ripagato totalmente la tensione accumulata fino a un paio d’ore prima, quando ho sostenuto un esame in università, e di cui in questo momento porto i segni (sono scarico, l’adrenalina e la tensione sono sparite e hanno lasciato spazio alla stanchezza).
Protagonisti della scena, un signore sui 55-60 anni (credo, era abbastanza lontano), non longilineo ma neanche tondo, pantaloni lunghi scuri e giaccone altrettanto scuro, e il suo cagnolino, bianco, piccolo, ricciolino. Ah, e una pallina di gomma.
Il signore dimostrava buone doti calcistiche, dato che controllava sempre benissimo la pallina tra i suoi piedi e la spostava senza troppi problemi nel tentativo di non concederla al suo amico a quattro zampe. Il quale dimostrava una gioia e una giocosità incredibile, preso com’era ad andare a destra e a sinistra, avanti e indietro, scattando agilmente e arrestandosi in un amen, coda scodinzolante e occhi fissi sulla pallina. Finchè questa era tra i piedi dell’uomo, il piccoletto non azzardava scagliarcisi sopra, quasi come segno di rispetto: sembrava consapevole che il bello del divertimento era proprio questo suo atteggiamento. E andava a destra e a sinistra, sempre scodinzolando, preso completamente nel gioco.
E l’uomo… pure. Spostava la palla, faceva un paio di finte con le gambe, si girava e si girava ancora, si impegnava davvero. Pure lui era completamente preso dal gioco. In quel momento, esistevano solo 4 cose: l’uomo, il cane, la pallina e una superficie di cemento 4x4 metri, teatro del gioco. Tutto il resto dell’esistenza era superfluo, non serviva: non aggiungeva nulla alla perfezione di quello spettacolo. La spensieratezza e la felicità presenti sia nel signore che nel cane erano tutto il necessario.
Finchè siamo rimasti fermi alla stazione, sono rimasto pietrificato al cospetto di tanta bellezza, pura, semplice, incantevole. E quella energia, quell’atmosfera che permeava quei 16 metri quadri di cemento, per un attimo è arrivata anche a me: nulla importava davvero, il mondo sarebbe potuto letteralmente esplodere in quel preciso momento e non sarebbe cambiato niente. Probabilmente, non me ne sarei nemmeno accorto.
Davvero, è stato un qualcosa di divinamente meraviglioso. Ero in totale adorazione. Avevo davanti ai miei occhi, a una trentina/quarantina di metri di distanza, tutto il senso dell’esistenza, tutta la poesia cosmica, tutta la bellezza che deve per forza appartenere all’essenza di quel concetto universale comunemente etichettato come “Dio”.
Poi il treno è ripartito…
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